Design Thinking: storia, metodi e impatti nel business contemporaneo

 

A cura di Martina Marini.

 

Introduzione

 

Il percorso di teorizzazione e pratica del Design Thinking attraversa decenni di trasformazioni ed è complesso ricostruire in modo esaustivo tutte le influenze che hanno contribuito alla sua forma attuale. Ingegneri, scienziati, filosofi e progettisti hanno a lungo esplorato i metodi e i processi alla base dell’innovazione, ponendo le premesse di un approccio che oggi è al centro di molte strategie organizzative.

 

Un passaggio decisivo fu quello della Seconda Guerra Mondiale, che impose di affrontare problemi complessi in maniera coordinata e pragmatica. Da quell’esperienza maturarono pratiche che anticiparono alcuni tratti distintivi del design thinking contemporaneo: multidisciplinarietà, problem solving iterativo e visione sistemica.

Non sorprende, dunque, che i primi riferimenti strutturati a quello che poi verrà chiamato Design Thinking emergano negli anni ’50 e ’60 negli Stati Uniti, in particolare nei campi dell’architettura e dell’ingegneria. Negli anni successivi, discipline come le scienze cognitive, la ricerca filosofica e alcune pratiche progettuali hanno contribuito a consolidarne i fondamenti, rendendolo progressivamente più applicabile in contesti diversi.

 

Oggi il Design Thinking rappresenta un paradigma di riferimento non solo in ambito accademico, ma soprattutto per l’innovazione in azienda, nella tecnologia, nei servizi e nelle politiche pubbliche. La sua rilevanza deriva dalla capacità di trasformare principi teorici in strumenti operativi che favoriscono collaborazione tra competenze eterogenee, sperimentazione rapida e soluzioni orientate a generare valore concreto, sia per le organizzazioni sia per la società.

 

 

Dalla Design Science al Cooperative Design 

 

Partiamo quindi dagli anni ’50 e ’60, anni in cui Buckminster Fuller introduce la Design Science: un approccio multidisciplinare che mira a risolvere problemi globali tramite visione olistica e collaborazione di esperti in scienza, design e tecnologia. Il suo metodo punta al benessere collettivo, mirando a prefigurare bisogni futuri e offrire soluzioni replicabili su larga scala.

 

 

 

 

La Design Science (“scienza del progetto”) è un approccio sistematico e scientifico al design, è definita come una metodologia rigorosa e multidisciplinare finalizzata a risolvere problemi complessi a beneficio dell’umanità, applicando principi generali (“leggi della natura”) per ottenere soluzioni innovative ed ecologicamente responsabili.

 

A differenza del design tradizionale, che può essere confinato a oggetti o servizi, la Design Science aspira alla trasformazione sistemica, e veniva spesso affiancata alla Comprehensive Anticipatory Design Science (CADS), cioè una progettazione comprensiva, anticipatoria e fondata sulla scienza. Oltre all’aspetto sistemico, è essenziale notare quanto sia fondamentale in questo caso la misurazione e raccolta di dati sia nelle premesse, sia nei risultati.

 

Questo tentativo di applicare la metodologia e i processi scientifici alla progettazione, con l’obiettivo di comprendere ogni aspetto del design, portarono all’emergere di studi come quello di Nigel Cross che pubblica il saggio “Designerly ways of knowing: design discipline versus design science” (2001). [aggiunta link]

 

Nigel Cross, con la sua indagine storica e teorica, mette a fuoco un conflitto tra “design science” e “designerly ways of knowing”. Da una parte, Buckminster Fuller e altri pionieri vedevano nella “design science” l’opportunità di fondare il design su principi scientifici, in grado di affrontare problemi globali con rigore e multidisciplinarità. Dall’altra, emergeva il riconoscimento che il pensiero progettuale ha modalità cognitive e procedure distinte, che non possono essere ridotte a formule scientifiche.

 

 

NigelCross-minNigel Cross, 1970s © The Open University

 

Di segno opposto e complementare, si sviluppa dagli anni 70 in Scandinavia il Cooperative Design (poi anche detto Participatory Design): questa pratica nasce da un contesto politico e sociale segnato da forti ideali democratici e dalla volontà di dare voce ai lavoratori durante la rivoluzione dell’automazione e dell’informatica nei luoghi di lavoro. In opposizione all’approccio top-down del design tradizionale, questo metodo mirava a coinvolgere attivamente gli utenti, in particolare i lavoratori, come partner nel processo di progettazione di strumenti, processi e tecnologie destinati a cambiare radicalmente le loro attività quotidiane.

 

 

Figure e principi chiave del Design Thinking

 

Il Design Thinking si struttura grazie al contributo di numerosi protagonisti che ampliano la visione e il significato delle pratiche del design, in particolare modo si affrontano temi come la responsabilità sociale e la sostenibilità (Papanek), l’essenziale ruolo dell’iteratività nelle pratiche (Schon, Sanders), e di nuovo, anche negli Stai Uniti, l’importanza della partecipazione (Papanek, Sanders). Il loro contributo ha fornito le basi teoriche, critiche e operative su cui è stato possibile sviluppare il design thinking contemporaneo, dimostrando la natura profondamente evolutiva, interdisciplinare e umanistica del design del Novecento.

 


07_VDM_Papanek_Filmset-Design-Dimensions-minVictor Papanek, set "Design dimensions" WNED-TV Channel 17, Buffalo, NY (1961 – 1963) © University of Applied Arts Vienna, Victor J. Papanek Foundation

 

 

Victor Papanek rappresenta un punto di rottura con il paradigma modernista e consumista, portando in primo piano la dimensione sociale ed ecologica del progetto. La sua insistenza sul design per i “veri bisogni dell’uomo” e la sua dura critica al design autoreferenziale anticipano le odierne riflessioni su sostenibilità, inclusione e “design for good”. Il suo pensiero contribuisce ad aprire il design a una responsabilità etica condivisa, gettando le basi per pratiche partecipative e orientate al benessere collettivo.

 

 

05_VDM_Papanek_Gallery-of-Living-Arts-min Victor Papanek, Gallery of Living Arts, il design dell’ingresso per una mostra espositiva a Corona Del Mar, California (1949 – 1952) © University of Applied Arts Vienna, Victor J. Papanek Foundation

 

 

donald_schon_BBCDonald Schön  © BBC, Radio 4, The Reith Lectures.

 

 

Donald Schön apporta una rivoluzione epistemologica, ponendo l’accento sulla riflessività professionale e sull’apprendimento in azione. La sua idea di “reflection-in-action” descrive il progettista come un pratico riflessivo, capace di adattare il proprio agire ai feedback del contesto, in un ciclo “aperto” di apprendimento.

 

Schön colloca il design (e le professioni del progetto) al centro di un dialogo tra teoria e pratica, promuovendo modelli di apprendimento iterativo che hanno avuto profonde ripercussioni:

- in pedagogia, ha spinto verso metodi di insegnamento basati sul problem solving reale, casi di studio, simulazioni e apprendimento esperienziale;
- nel management e nel design organizzativo, ha contribuito a riconoscere l’importanza di pratiche iterative, di leadership adattiva e di processi decisionali che incorporano feedback continui e apprendimento collettivo.

 

luminaries-april2021-minElisabeth (Liz) Sanders © The Ohio State University.

 

Infine Elisabeth (Liz Sanders, a partire dagli anni ’90, promuove negli USA una concezione radicalmente democratica della progettazione. Introduce la co-creazione e la validazione della creatività diffusa, superando il mito del designer-genio e valorizzando il contributo degli utenti come co-autori. La sua metodologia non solo trasforma il processo e gli strumenti del design, ma incide anche sulla cultura organizzativa e sociale, favorendo lo sviluppo di comunità di innovazione e anticipando la logica dei “living labs”.

 

Si affermano così tecniche come brainstorming, lateral thinking, prototipazione e osservazione sul campo, ormai irrinunciabili nella cassetta degli attrezzi di chi pratica il design thinking.

 

 

 

 

Anni '90 e oltre: sistematizzazione e business design  

Nel 1991 nasce IDEO, realtà statunitense che ha avuto un ruolo cruciale nel portare il design thinking sulla scena globale. David Kelley, Tim Brown e collaboratori consolidano i metodi user-centered, sistematizzano strumenti come ideazione, prototipazione rapida e test iterativi, e ne codificano la “filosofia”: empatia per l’utente, lavoro interdisciplinare, sperimentazione e attenzione alle esperienze d’uso.


In questi anni, il design thinking si distacca progressivamente dal solo ambito del prodotto fisico, per includere servizi e strategie organizzative, raccogliendo l’eredità degli autori citati precedentemente.

 

Con l’avanzare dell’immaterialità e della complessità dei problemi, le scienze sociali e la Human-Computer Interaction entrano in scena. In questo contesto, Rittel e Webber introducono il concetto di “wicked problems“: nel 1992 viene pubblicato “Wicked Problems in Design Thinking”. I wicked problems sono problemi complessi, ambigui, senza soluzioni definitive.

 

 

wicked_problems_rittel_webber

 

Le soluzioni possono essere buone o cattive, migliori o peggiori, sufficienti o soddisfacenti, ma non “giuste”. Webber e Rittel introducono così il concetto di co-evoluzione della comprensione del problema e della soluzione. A differenza delle discipline scientifiche tradizionali, che cercano soluzioni definitive, replicabili e “giuste”, il design si confronta con situazioni dove la perfezione assoluta non esiste, e le risposte vanno intese in termini di “buono abbastanza” o “soddisfacente” in un dato contesto.

 

Il concetto di co-evoluzione di problema e soluzione introdotto da Webber e Rittel è particolarmente significativo perché sottolinea che durante il processo progettuale la definizione del problema stesso può mutare in relazione alle soluzioni esplorate. Problema e soluzione non sono due entità separate e fisse, ma si influenzano reciprocamente, evolvendo insieme. I “wicked problems” stanno al centro del design thinking perché sono proprio questi problemi multidimensionali a richiedere una metodologia collaborativa per ottenere una comprensione profonda dei bisogni, delle motivazioni e dei comportamenti umani.

 

È in questo contesto che Roger Martin rende ancora più esplicito il valore strategico del design thinking, introducendo la nozione di business design: integrare il pensiero progettuale nei processi di management per superare il dualismo tra affidabilità (efficienza, ripetibilità) e validità (creatività, esplorazione dell’ignoto). Martin propone il modello del knowledge funnel.

 

 

RogerMartin-FEATURERoger Martin © Rotman School of Management - University of Toronto.

 

 

Le organizzazioni percorrono cicli continui tra tre fasi:

- Mysteries: l’esplorazione di problemi non ancora definiti, caratterizzati da ambiguità e novità.
- Heuristics: la definizione di possibili linee guida e strategie, attraverso creatività, sintesi e prototipazione iterativa.
- Algorithms: la codifica di soluzioni funzionanti in processi affidabili, replicabili ed efficienti.

 

Le realtà più dinamiche e competitive sono quelle che riescono a non fermarsi all’ultima fase, ma riescono a “danzare” costantemente tra queste fasi, costantemente pronte a ri-esplorare “misteri”, sperimentando nuove strade e ricominciando il ciclo dell’innovazione.

 

 

knowledge_funnel_roger_martinImmagine del "Knowledge funnel" introdotto da Roger Martin | Fonte: The Design of Business: Why Design Thinking is the Next Competitive Advantage

 

 

Conclusioni

La storia del design thinking racconta una convergenza tra approcci sistemici e partecipativi, orientamento scientifico e creatività, metodo e visione d’insieme, e soprattutto un’attenzione enorme alla partecipazione delle persone che useranno gli strumenti, si serviranno dei servizi e abiteranno gli ecosistemi progettati da aziende ed enti pubblici.

 

L’esperienza di IDEO, la teoria di Tim brown e il pensiero di Roger Martin dimostrano che il design thinking è oggi una strategia progettuale e manageriale fondamentale per affrontare le sfide della contemporaneità. Non solo una metodologia e una raccolta di tecniche, ma un’attitudine a vedere nel “non ancora risolto” una fonte inesauribile di opportunità.

 

In un contesto dove l’incertezza è abbastanza costante, la capacità di integrare logica, immaginazione progettuale e l’aspetto più umano e qualitativo dell’esperienza diventa un grande vantaggio competitivo e una fonte di riflessione e discussione costanti.

 

 

 

 

***

References